Al G8 di Genova Polizia e black bloc hanno lavorato in
simbiosi. Ero inviato «addetto alle botte» e sono stato testimone
diretto dell’incoffessabile legame.
«Se vuoi mangiare devi fare la fila. Qui è tutto chiuso. I ristoranti
aperti sono pochi. Vanno tutti lì a mangiare. Ti siedi solo se sei
fortunato».
Assolata e desolata. Così si presentava Genova nel luglio 2001. Non
era desolata a causa del caldo e delle vacanze. Era desolata per paura.
Di lì a pochi giorni si sarebbe svolto il G8, il vertice internazionale
che racchiude gli otto Stati più potenti economicamente dell’Occidente.
Si sarebbe discusso di molti temi, e di globalizzazione. Ma soprattutto
la città sarebbe stata teatro delle proteste anti globalizzazione. Di
questo avevano paura i genovesi. Da settimane i giornali e le
televisioni annunciavano la violenza dei manifestanti. Si era arrivati a
scrivere che i dimostranti avrebbero lanciato sacche di sangue infetto
alle forze dell’ordine. Per questo i genovesi avevano paura e la città
appariva desolata.
Allora lavoravo per l’agenzia di stampa Ap.Biscom (oggi TMNews).
Facevo parte della nutrita squadra inviata a Genova per coprire
l’evento. «Dovrai occuparti delle botte, degli scontri», mi dissero.
Ero contento della missione assegnatami. Come tutti i vertici
internazionali, anche questo si annunciava come l’ennesima noiosa
sequela di strette di mano, di party, conferenze stampa e frasi di rito.
L’azione, il divertimento per un giornalista curioso, stavano altrove,
per le strade. Né io né nessun altro dei cronisti giunti nel capoluogo
ligure avrebbe mai immaginato che quei giorni si sarebbero trasformati
in un’ordalia di violenza incontrollata, in terrore puro, in incubi che
mi avrebbero perseguitato negli anni a venire.
Arrivai a Genova una settimana prima l’inizio del Vertice. Dovevo
prendere confidenza con le strade di Genova e raccontare la
trasformazione fisica della città in vista del G8. Nei momenti liberi
andavo a seguire le conferenze del Genoa Social Forum, sempre molto
interessanti e affollate di curiosi di ogni ceto, provenienza ed età.
I giorni passavano e il momento di inizio del vertice si stava
avvicinando. Nel frattempo cercavo di capire dove ci sarebbero stati gli
scontri, chi vi sarebbe stato coinvolto e di quale entità sarebbero
stati. Cercavo di prepararmi al meglio al mio lavoro. Parlavo con
poliziotti, finanzieri, manifestanti. Partecipavo a riunioni (a volte
con risultati disastrosi), assistevo a comizi. Genova stava velocemente
cambiando e io altrettanto rapidamente dovevo comprendere, prevenire,
altrimenti non sarei riuscito a raccontare la realtà. Di informazioni ne
stavo raccogliendo molte, ma non abbastanza. Mi mancava il quadro
d’insieme. Mi mancavano alcuni particolari decisivi. Chi avrebbe dato il
via agli scontri? Dove sarebbe accaduto? Come si stavano realmente
preparando le forze dell’ordine? Le tute nere e le tute bianche si erano
organizzate?
Forse la questione era concentrata in due domande: manifestanti (o
parte di loro) si erano segretamente accordati con le forze dell’ordine?
Esisteva qualche piano segreto progettato da alcunchi? Al momento erano
domande senza risposta. In seguito avrei trovato le risposte e avrei
scoperto che entrambe erano affermative.
«Se vuoi mangiare devi fare la fila. Qui è tutto chiuso. I ristoranti
aperti sono pochi. Vanno tutti lì a mangiare. Ti siedi solo se sei
fortunato». Erano giorni che mi sentivo ripetere dai miei colleghi la
stessa cosa. Andavo a cenare sempre nello stesso ristorante a via XX
settembre. Ci andavo perché era comodo. Ma soprattutto, ci andavo perché
era frequentato da poliziotti e finanzieri. Ci andavo perché era un
ottimo luogo per raccogliere informazioni.
Una sera un poliziotto mi mostrò una foto del Maschio Angioino di
Napoli. «Ci sei mai stato? Sì, eh. Bello. Napoli è una città bellissima.
Io vivo nella parte bassa del Vomero».
«Lei era presente agli scontri di marzo?».
«Certo che c’ero. La vuoi sapere una cosa? I no global sono delle
bestie. Degli animali. Napoli è così bella. Un giorno arrivano gli
animali e la mettono sotto sopra. Bestie! Sapessi quante botte sono
volate quel giorno. Eh, ma noi gliene abbiamo date di santa ragione,
sai. Bum! Bum! Bum! – il braccio destro che menava fendenti all’aria
imitando le manganellate – Ne abbiamo stesi tanti quel giorno. Ne ho
stesi tanti! Bestie sono! Non vedo l’ora che venga venerdì per farli a
pezzi. La pensano tutti come me. Le vogliamo massacrare quelle merde.
Non usciranno vive da Genova!».
«Sta parlando sul serio? Non le sembra di esagerare?».
«Tu c’eri a Napoli? No? E allora che ne sai. Che ne sai cos’è
successo. Sono bestie. E come bestie verranno trattate. Sono quattro
mesi che aspettiamo questo momento».
La sera successiva al ristorante incontrai lo stesso poliziotto. Mi
riconobbe subito. Mi sorrise e mi mostrò la foto del Maschio Angioino.
Non disse nulla. Non ce n’era bisogno.
Finito di cenare mi avvicinai al tavolo dove stava seduto. Mi
presentò i suoi colleghi. Sembrava che non importasse a nessuno che ero
un giornalista. Sapevano che avrei potuto scrivere quello che mi stavano
raccontando, eppure non avevano remore nel chiacchierare.
«Ragazzi, questo vuole sapere dove ci saranno le botte e quante botte ci saranno! Che dite? Glielo diciamo?».
«Di botte ce ne saranno tante. Puoi star certo. Pensi che noi staremo
fermi a proteggere la Zona Rossa mentre quelle bestie scorrazzeranno
liberamente per Genova? Chi pensa questo è un imbecille oppure vive
sulla Luna». E giù risate.
I due poliziotti, aggiunti al terzo napoletano del giorno prima erano
stati chiari. Mi attendeva un super lavoro nelle due giornate di
manifestazioni. Mancavano però sempre le informazioni decisive: chi,
dove, quando e come. E così continuavo a frequentare sera dopo sera quel
ristorante nella speranza di avere almeno una risposta alle mie
domande.
Poliziotti davanti all’entrata di una caserma. Alcuni di
loro, al posto della divisa, indossano abiti da manifestanti. Sono tante
le prove fotografiche, filmate e testimoniali che dimostrano come tra i
black bloc e i manifestanti più facinorosi ci fossero molti agenti
delle forze dell’ordine, sia italiani, sia stranieri.
Giovedì sera tra i tavoli c’era più calma del solito. Molti dei
poliziotti e dei finanzieri che avevo visto e conosciuto nei giorni
precedenti avevano disertato la cena. «Sono rimasti alla mensa del
quartier generale – mi dissero – domani è il grande giorno».
Ero deluso. In una settimana non ero riuscito a scoprire nulla di
significativo. Avevo anche partecipato il giorno prima a una riunione
operativa dei Pink.
Si svolgeva in un tendone di Piazzale Kennedy, a due passi dal mare.
Sotto la tenda c’erano un centinaio di persone. Insieme a me c’erano
alcuni giornalisti. Ma prima che iniziasse la riunione, uno dei
dirigenti disse: «Tutti i giornalisti fuori dalle palle! Questa è
un’assemblea di dimostranti. Dobbiamo decidere cose importanti. Quindi,
fuori!».
Uscirono tutti. Io rimasi. Ovviamente col mio badge infilato nel
giubbotto da fotografo multitasca che portavo in quei giorni. Parlavano
di strategie, di come avvicinarsi alla Zona Rossa. Io ascoltavo e
riferivo via cellulare alla mia redazione. Non stavo la spia, stavo
facendo il mio lavoro.
Alcuni di loro, però, non la pensavano allo stesso modo. «Ehi! Questo
qui è uno sbirro! Parla al cellulare e racconta quello che diciamo»,
urla un tipo.
«Non sono una spia. Sono un giornalista». Feci vedere il badge.
«E allora fuori! I giornalisti non ce li vogliamo qui!».
I Pink erano l’ala più innocua dell’estremismo no global. C’erano i
Black, le tute nere, i violenti per antonomasia. C’erano gli White, le
tute bianche, che usavano la violenza solo per autodifesa. E poi c’erano
i Pink, o tute rosa. Il nome già spiega tutto. Alcune centinaia di
persone (uomini e donne) tutti rigorosamente vestiti di rosa, con tanto
di tutù (sempre uomini e donne) che sfilavano ballando e improvvisando
numeri da circo. C’era chi faceva il giocoliere con le clavette, chi
circolava su di una bici monoruota, chi camminava sui trampoli. In altre
parole, innocui.
Eppure quel pomeriggio non sembravano così pacifici. Mi stavano cacciando dalla tenda a furia di spinte, pugni e calci.
«I ciclisti no global! I ciclisti no global!». Tutti, presi da un
fervore di grande eccitazione scattarono fuori dalla tenda. Si erano
improvvisamente dimenticati di me!
Grazie alla loro divisa nera al volto coperto, i black bloc riescono ad agire
indisturbati, senza correre il rischio di essere riconosciuti.
Per questo motivo è facile a un estraneo al movimento anticapitalista infiltrarsi
per fare casino o per compiere azioni negative di fronte alle telecamere e alle
macchine fotografiche.
Azioni, queste ultime, che hanno l’unico scopo di mettere in cattiva luce la pacifica
protesta di piazza.
indisturbati, senza correre il rischio di essere riconosciuti.
Per questo motivo è facile a un estraneo al movimento anticapitalista infiltrarsi
per fare casino o per compiere azioni negative di fronte alle telecamere e alle
macchine fotografiche.
Azioni, queste ultime, che hanno l’unico scopo di mettere in cattiva luce la pacifica
protesta di piazza.
Sul piazzale arrivarono un centinaio di ciclisti con bandierine colorate attaccate al retro del sellino. Cominciarono a girare in tondo tra gli applausi dei Pink e di altri curiosi. La baldoria non durò più di venti minuti.
Non appena i ciclisti si furono allontanati una piccola folla si
radunò intorno a un tavolo di legno con delle panche intorno. Qualcosa
di molto simile ai tavolacci tipici delle birrerie o delle baite.
Mi avvicinai con circospezione. Quando vidi che avevano steso sul
tavolo una pianta di Genova con al centro la Zona Rossa e molti segni e
simboli sparsi qua e là mi tuffai in mezzo ai Pink che discutevano e
segnavano con le dita punti sparsi sulla mappa.
«Che cos’è?», chiesi a uno di loro.
«La mappa della Zona Rossa. Li vedi quei punti segnalati. Quelli sono
i punti nei quali è previsto un assembramento da parte di qualche
gruppo. Le croci segnate in rosa siamo noi».
Il tipo, né alcun altro intorno al tavolo, si era reso conto che
stava parlando con lo stesso giornalista che avevano tentato di cacciare
in malo modo solo venti minuti prima.
«Ci avvicineremo alla Zona Rossa qui, qui e qui».
«E i black?».
«I black fanno come gli pare a loro. Nessuno conosce i loro piani.
Loro stanno nei campeggi, sulle colline, in montagna. Speriamo solo che
non rovinino tutto».
Quello che avrebbero fatto i Pink era interessante. Ma la mia
attenzione era concentrata su altro. Non stavo ricavando le informazioni
giuste. Per di più, dopo cinque minuti di spiegazioni cartina alla mano
uno di loro, un inglese, mi riconobbe: «Ma è lo stesso giornalista di
prima! Che cosa ci fai qui! Vattene!». E di nuovo calci, pugni e spinte.
Incontrai il gruppo dei Pink al completo il giorno dopo, alla
manifestazione dei migranti. Quindicimila persone che sfilavano per far
sapere ai grandi della terra che i flussi migratori dal Sud del mondo
non dovevano rappresentare un problema. Potevano essere una grande
risorsa.
Mi trovavo sul ciglio della strada. I Pink stavano sfilando pieni di
energia. Riuscivano a infondere buonumore ed entusiasmo ai genovesi che
assistevano alla dimostrazione. L’inglese che mi aveva cacciato la
seconda volta mi riconobbe. «Ehi! Ciao! Come stai? Hai visto che bello?
Ragazzi, guardate chi c’è!». E giù grandi saluti, sorrisi e baci
lanciati con le mani. Questi erano i Pink.
A parte qualche acciacco e qualche informazione decorativa, mi
ritrovavo allo stesso punto di prima. Era come la notte prima degli
esami. Non sapevo che cosa mi sarebbe aspettato il giorno dopo. E se
volevo fare bene il mio lavoro non potevo permettermelo.
Ero in procinto di lasciare il ristorante quando mi si avvicinò un
poliziotto. Non saprei dire quale grado avesse. Lo conoscevo di vista.
Ma evidentemente lui sapeva chi ero e perché fossi lì.
«Sei tu quello che vuole sapere degli scontri di domani?».
«Certo! Mi sa dire qualcosa?».
«Vuoi veramente sapere dove inizierà il macello?».
Non desideravo altro da giorni.
«Allora, stammi a sentire…».
Ce l’avevo fatta. Avevo l’informazione giusta. Tutta da verificare, ovviamente. Ma almeno avevo qualcosa da verificare.
Ero contento. Ed al tempo stesso avevo paura. Quello che avevo saputo
lasciava trasparire un accordo tra Black Bloc e forze dell’ordine. Una
sorta di spartizione del territorio e delle competenze. Iniziai a
pensare che la giornata di venerdì sarebbe stata molto peggio di quanto
avessi previsto.
Passai buona parte della mattina del venerdì a circolare per la Zona
Rossa. Volevo vedere come si vive in una città appena colpita da una
bomba N, quella che uccide le persone e non distrugge le cose. Così si
presentava l’interno della Zona Rossa quel giorno. Silenzio, strade
vuote, immobilità dell’aria. Come in un film.
Verso le 11 mi avvicinai verso il luogo di appuntamento indicatomi
dal poliziotto. Scesi da via XX Settembre in direzione di viale delle
Brigate Partigiane, un larghissimo stradone che collega la stazione di
Brignole al mare.
La strada era completamente intasata da cellulari di polizia e
carabinieri. Tutti messi ordinatamente uno accanto all’altro su tre
file. Una vera e propria muraglia di lamiere. Mi resi conto che i
manifestanti che venivano da Levante (le tute bianche) solo per
raggiungere la Zona Rossa avrebbero dovuto scardinare quel muro.
Impossibile!
La cosa ancora più strana, però, era che i cellulari e gli autoblindo
erano concentrati in particolare in una traversa di viale delle Brigate
Partigiane: via corso Buenos Aires. La cosa assurdamente più strana era
che quella strada era esattamente la strada che dovevo percorre per
recarmi all’appuntamento. A metà di corso Buenos Aires c’era l’angolo
dove, secondo il poliziotto sarebbero iniziati gli scontri. E la polizia
era pronta ad intervenire.
Ore 12. Angolo corso Buenos Aires e Piazza Paolo da Novi. Ero
arrivato sul posto con una decina di minuti d’anticipo. Giusto il tempo
per rendermi conto che in piazza c’era un sit in dei Cobas della Scuola.
Circa cinquemila persone, in gran parte di età media tra i trenta e i
cinquant’anni, in gran parte dall’aspetto pacifico e innocuo, totalmente
in parte del tutto ignari di quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
Dunque, ore 12. Con precisione svizzera un gruppo di persone con
cappucci e passamontagna, interamente vestite di nero, si avvicinò con
aria spavalda all’angolo dell’appuntamento. Del tutto incuranti della
presenza di centinaia di poliziotti a pochi metri di distanza i nero
vestiti cominciarono a distruggere la banca che si trovava nel suddetto
angolo.
«Fatti trovare a mezzogiorno all’angolo tra corso Buenos Aires e
piazza Paolo da Novi. Arriveranno dei Black Bloc e distruggeranno la
banca. Due-tre minuti al massimo. È quello il segnale dell’inizio del
macello». Il poliziotto la sera prima non sarebbe potuto essere più
esplicito.
Ore 12 (esatto), all’angolo tra corso Buenos Aires e piazza Paolo da
Novi (esatto), un gruppo di Black Bloc (esatto) distruggerà una banca in
due-tre minuti (esatto). Sarà l’inizio del macello.
Era un minuto che i neri stavano distruggendo la vetrina della banca.
La polizia a pochi metri restava immobile. Due minuti. La polizia
sempre immobile. Tre minuti! I Black bloc avevano con grande maestria il
loro lavoro sotto gli sguardi allibiti e le proteste dei Cobas. La
polizia sempre a pochi metri e sempre immobile.
Cominciavo a pensare di aver avuto un’informazione sbagliata, almeno
in parte. I nero vestiti persero qualche altro minuto a divellere alcuni
marciapiedi della piazza per accumulare sampietrini da lanciare. Sempre
nulla. La polizia a guardare.
Ore 12.10, i Black Bloc si ritirarono con grande rapidità, lasciando
la piazza in mano ai Cobas (come prima), ma anche con una certa quantità
di macerie, segno del loro passaggio. Era solo in quel momento, solo
quando il posto era sgombero dai neri, che la polizia, tra urla e botti
per lo sparo di lacrimogeni, decideva di attaccare. Non di inseguire i
Black, ma di attaccare gli inermi ed innocenti Cobas della Scuola.
Il poliziotto aveva detto il vero. Si era accesa la miccia che avrebbe fatto esplodere Genova. Il “macello” era iniziato.
http://www.mafia-capitale.it/index.php/2015/07/21/io-testimone-del-g8-vi-racconto-che-i-black-bloc-non-esistonosono-agenti-di-polizia/
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