A Ventotene, Matteo Renzi, Francois Hollande e Angela Merkel si incontrano per parlare di Europa e del suo futuro, evocando lo spirito del manifesto di Altiero Spinelli dopo lo shock del Brexit. Cazzate. Renzi ha bisogno di flessibilità a tutti i costi, perché non può permettersi che la crisi economica si tramuti in un elemento determinante nel voto al referendum costituzionale di novembre, quindi blinderà i due leader su una nave della Marina militare e gli dirà quanto segue: voi non ostacolatemi in sede di Commissione Ue nelle richieste che avanzo e io faccio in modo che i profughi restino in Italia.
Insomma, Renzi versione Erdogan. Perché Francia, Svizzera e Austria avranno anche sigillato i confini ma se dal lato italiano la polizia comincia a guardare dall’altra parte, state tranquilli che ci vuole poco a far fiorire il business degli spalloni di uomini. Si chiama realpolitik, fa schifo ma c’è sempre stata.
Il problema vero è che per quanto Renzi cerchi di fare i salti mortali, ora evocando attraverso il ministro Del Rio la panacea keynesiana dei mitologici investimenti pubblici, il destino del Paese è segnato. Di più, è l’Europa stessa ad aver quasi raggiunto il punto di non ritorno. “Tra due mesi o tra due anni ma quel che è certo è che siamo alla vigilia di una nuova grave crisi stile 2008 o peggio”, ha dichiarato in un’ intervista pubblicata ieri del quotidiano belga “Le Soir” Carlo De Benedetti, uno che parla poco ma quando lo fa, è per mandare messaggi in codice. Dichiaratosi “sorpreso” dalla Brexit, definita “l’inizio di un ripiegarsi su di sé come lo sarà il voto per Trump”, il presidente del Gruppo L’ Espresso ha inoltre affermato che nella Ue “oggi non abbiamo dirigenti all’ altezza, Merkel è la sola leader in Europa”.
Insomma, l’Ingegnere ha scaricato Renzi: vuoi vedere che quel “comunque vada si vota nel 2018” era solo la spacconata di chi sa che i poteri forti gli hanno detto addio e gioca la carta del tutto per tutto? Ma sempre ieri, un altro giornale ha lanciato un attacco molto netto contro l’Italia, per l’esattezza contro le sue banche. Il “New York Times” ha infatti messo nel mirino i prestiti concessi alle imprese che, nonostante le iniezioni di liquidità, faticano a tenere i conti in ordine. Tra gli esempi, il quotidiano cita Feltrinelli, la quale dal 2012 a oggi ha totalizzato quasi 11 milioni di perdite eppure ha continuato a essere sostenuta da Unicredit e Intesa Sanpaolo. L’analisi parte da un report del Center for economic policy research e punta il dito contro gli istituti di credito che, nell’ ultimo anno, in Borsa hanno perso il 70%.
Oltre alla casa editrice, finiscono nella lista dei cattivi anche i Benetton. Ma a preoccupare sono soprattutto le migliaia di piccole imprese che sono state colpite duramente dalla recessione: stando ai calcoli del centro ricerche, il 17% dei prestiti è finito a chi non lo meritava. “Una situazione che ricorda quella greca”, chiosa il quotidiano statunitense.
Insomma, De Benedetti è certo che un’altra violenta crisi finanziaria sia alle porte. Non è il solo. Questo grafico
è relativo all’ultimo sondaggio di Bank of America tra i fund manager relativamente al “tail risk” che temono maggiormente. Come vedete, gli attacchi di Nizza e Monaco hanno fatto aumentare la percezione di rischio legato al terrorismo, assente a luglio ma la preoccupazione maggiore, non presente un mese fa, è quella relativa alla disintegrazione dell’Ue. Eppure grazie agli acquisti della Bce gli spread sovrani sono calmi e le aziende si finanziano attraverso emissioni obbligazionarie a pioggia: perché questa paura? Perché il mondo annega nel debito ed è in condizioni macro molto peggiori di quelle del 2008, quindi è naturale che prima o poi anche la droga delle Banche centrali non basti più e le bolle esplodano. Guardate questo grafico:
relativo ai default corporate: da inizio anno siamo a 113, pari al totale dell’intero 2015 e il 57% di più rispetto ai primi otto mesi dell’anno scorso. Per trovare un tasso di fallimenti simile, dobbiamo andare indietro al 2009. Ma come ci mostra questo altro grafico,
Grazie all’operato onnivoro della Banche centrali, gli spread sull’alto rendimento Usa non solo non si ampliano ma calano, nonostante l’aumento dei default. Può durare in eterno una dinamica simile? Chiedetelo a chi nega l’esistenza della Scuola austriaca e vediamo cosa risponde. E senza scomodare i multipli di utile per azione da manicomio degli indici Usa, è la realtà macro a dirci che se la Fed si azzarda ad alzare i tassi a settembre, si ballerà sul Titanic. E guardate questo altro grafico,
il quale ci mostra come a Vancouver il prezzo medio di un’abitazione sia di 1,1 milioni di dollari, in calo del 20,7% rispetto a soli 28 giorni fa e giù del 24,5% negli ultimi tre mesi. Bolla in piena regola, mercato devastato, oltretutto con l’industria dello shale oil che non garantisce più l’effetto ammortizzatore sull’economia reale. Eppure per i fund manager interpellati da Bank of America il rischio è l’Ue. Forse perché gli Usa hanno tutto da guadagnarci a far esplodere una crisi del debito o bancaria lontano dai loro mercati, patendo quindi meno l’effetto contagio diretto e garantendosi l’effetto collaterale positivo di poter riattivare le presse dello stimolo a causa della nuova emergenza esterna.
Si dimostra come le banche portoghesi, già di per sé debolissime, abbiano quasi raggiunto quelle italiane nella non invidiabile classifica del cosiddetto doom loop, ovvero il circolo vizioso tra debito sovrano e detenzioni bancarie. La logica è chiara e semplice: più uno Stato emette debito, stimolato dagli acquisti della Banca centrale che garantisce rendimenti sotto zero in molti casi, più le banche commerciali comprano quel debito, certe della garanzia governativa sullo stesso, implicita o esplicita che sia. Ma se i bilanci delle banche peggiorano a causa delle sofferenze, questo di fatto porta a un impairment della garanzia governativa finale sul quel debito. Insomma, basta uno shock sugli spread e boom.
Oggi le banche lusitane detengono debito sovrano pari al 10% degli assets totali, in aumento dal 7% di soli due anni fa: avanti di questo passo, nel 2018 arriveranno al nostro livello di esposizione. Il problema è che il Portogallo ha un ratio debito/Pil del 129% e ha mancato, insieme alla Spagna, i propri obiettivi di deficit per il terzo anno di fila. Inoltre, il debito portoghese è acquistabile della Bce solo perché ritenuto ancora investment grade dall’agenzia canadese DBRS, mentre per le “tre sorelle” è junk. Se si arrivasse a un downgrade, sarebbe la catastrofe: senza il backstop di Francoforte, lo spread portoghese volerebbe alle stelle e contagerebbe immediatamente quello spagnolo. Per capirci, un calo del 15% nel prezzo dei bond sovrani eroderebbe il 35% del capitale delle banche italiane, il 22% di quelle portoghesi e il 18% di quelle spagnole.
Si dimostra come lo spread dei bond portoghesi sia cominciato a salire negli ultimi giorni in contemporanea con i rumors che vedono il proprio quel rating investment grade sempre più a rischio. Il capo dei rating sovrani della DBRS, Fergus McCormick, interpellato dalla Reuters riguardo lo stato di salute dell’economia portoghese, ha parlato chiaro: “Il dato sul Pil del secondo trimestre, un misero +0,2%, ha fatto aumentare le nostre preoccupazioni riguardo le prospettive di crescita del Paese, il quale ci appare nettamente in rallentamento nel trimestre in atto”. Ad oggi la valutazione di Lisbona ha outlook stabile ma andrà in revisione il 21 ottobre prossimo, soltanto una settimana dopo che il Portogallo sarà chiamato a fornire alla Commissione una lista di nuovi tagli ritenuti necessari per rispedire il deficit di budget sotto il 3% del Pil.
L’incertezza relativa al come ottenere queste misure unita al contraccolpo politico che nuova austerità potrebbe avere sulla già fragile coalizione di centrosinistra fa crescere i timori in McCormick, a detta del quale non è affatto escluso che “si debba operare un salvataggio di alcune banche, tra cui Caixa Geral de Depositos e BCP, attraverso soldi pubblici”. O, peggio, con il meccanismo del bail-in.
Ma c’è dell’altro. E di peggio. Perché per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, il ministero dell’Interno tedesco ha emanato un piano di emergenza in base al quale i cittadini dovranno obbligatoriamente creare scorte di acqua e vivere per almeno dieci giorni di sussistenza. Il motivo? Ufficialmente, un enorme attentato o una catastrofe. La notizia è stata rivelata dal Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, il quale rende noto che il piano – denominato “Concetto per la difesa civile” – è stato commissionato a un comitato apposito nel 2012: ovvero, dopo la crisi dei debiti sovrani del 2011 che sembrava poter distruggere l’eurozona. Smentite dal governo? Nessuna, anzi il portavoce del ministero dell’Interno ha confermato che il piano è stato discusso dall’esecutivo mercoledì scorso ma ha rifiutato di offrire altri dettagli.
Nel report si cita la necessità di “prepararsi appropriatamente per uno sviluppo che potrebbe minacciare la nostra esistenza e che non può essere categoricamente escluso”. Un’altra priorità sarebbe aumentare il supporto della popolazione nei confronti delle forze armate: le stesse che, dopo gli attentati di luglio, sempre più politici vorrebbero nelle strade al fianco della polizia per prevenire le minacce terroristiche. Ora la domanda da farsi è semplice: politici e intelligence tedeschi sanno qualcosa che noi non sappiamo o sta proseguendo la politica in base alla quale un popolo spaventato può essere influenzato e controllato meglio? Magari per affrontare un’altra emergenza, quella di una Ue che crolla.
Fonte: Rischio Calcolato
Articolo da 10 e lode!
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