La resistenza, insomma, come chiave per archiviare Vladimir Putin. A distanza di 104 giorni da quella che poi fu ridimensionata a «gaffe», l’uscita di Biden rischia di trasformarsi nel più classico degli autogol. Perché lo zar del Cremlino è ancora saldamente al suo posto mentre le tessere del puzzle occidentale che gli si contrappone no a cadere. Il passo d’addio di Boris Johnson, il leader europeo che più di tutti si è erto a difesa di Kiev, è in qualche modo la summa di tutti i pregi e difetti delle dimocrazie.
Aperte, inclusive, tolleranti nei confronti del dissenso. Ma al tempo stesso macchinose, instabili, volitive. Persino in un Paese, la Gran Bretagna, normalmente abituata alla stabilità dei governi. Certo, la parabola di BoJo ha poco a che fare con il conflitto in Ucraina. È figlia, piuttosto, dell’imperizia di un leader che si credeva intoccabile nonostante gli scandali e le gaffe che infilava di continuo. E che, in una sorta di contrappasso dantesco, è stato azzoppato dallo stesso partito che aveva scalato senza farsi scrupoli, tramando e pugnalando quando ce n’era bisogno.
IL PESO ECONOMICO DEL CONFLITTO
La guerra, tuttavia, ha molto a che fare con le difficoltà dei colleghi di Johnson che, in queste ore, si trovano in difficoltà più o meno simili. Un tempo si riteneva che le emergenze cementassero il popolo intorno ai propri governi. Lo scontro tra Mosca e Kiev, invece, sta causando l’effetto contrario. Probabilmente perché, col passare dei mesi, l’empatia nei confronti degli ucraini sta evaporando soppiantata dalle preoccupazioni per i cascami economici del conflitto. Che pure sono ancora lontani dal dispiegarsi completamente. Dei venti di crisi che soffiano sul governo di Mario Draghi si legge ogni giorno sui quotidiacominciani.
Ma il premier italiano è in buona compagnia. A passarsela peggio, probabilmente, è proprio Joe Biden. Ieri l’indice di gradimento elaborato dal portale FiveThirtyEight dello statistico Nate Silver faceva segnare un dato impressionante: il presidente Usa ha toccato un nuovo record negativo di gradimento. Il suo operato è apprezzato solo dal 38,6% degli americani.
Per trovare un dato peggiore dopo 534 giorni di amministrazione bisogna tornare indietro addirittura al 1946, con Harry Truman al 33%. Biden sperava, con il protagonismo sulla crisi ucraina, di rimediare al pasticcio in Afghanistan. Finora, tuttavia, l’obiettivo è stato malamente mancato. Le elezioni di Midterm a novembre sono vissute come un incubo dai democratici, ormai sicuri di perdere il controllo di entrambi i rami del Parlamento. Mentre il Paese si interroga sul reale stato di salute del presidente e nel suo partito si studia un sistema per convincerlo a un’onorevole uscita di scena nel 2024, evitandogli una ricandidatura che rischierebbe di tramutarsi in un fragoroso flop.
LE ELEZIONI IN EUROPA? LE VINCE VLADIMIR
Ha già affrontato le elezioni Emmanuel Macron. E, al netto di una conferma presidenziale da non sottovalutare (nessuno ci riusciva dai tempi di Chirac), le legislative hanno consegnato all’inquilino dell’Eliseo un Parlamento senza più maggioranza. Al contrario, a essere premiate sono state le ali estreme, Mélenchon e Le Pen.
Ovvero i leader che più di tutti hanno focalizzato l’attenzione sul prezzo che la popolazione sta pagando a causa dei rincari energetici e dello stop dei rapporti commerciali con Mosca. Macron non sarà disarcionato – il sistema francese tutela i poteri del presidente anche in assenza di numeri-mail suo secondo mandato sarà segnato inevitabilmente da una maggiore attenzioneverso le questioni interne. Con ovvia soddisfazione del Cremlino. Che, dal canto suo, ieri è stato il primo a commentare, con giubilo, la caduta di Johnson. È una sorta di maledizione, quella di Putin.
Da quando è scoppiatala guerra, seppur indirettamente, ha vinto tutte le elezioni disputate in Europa. Come in Ungheria e Serbia, dove al potere sono rimasti i suoi sodali Viktor Orbán e Aleksandr Vucic. Il primo ha messo ibastoni tra le ruote alla Ue ogni volta che c’era da approvare un pacchetto di sanzioni contro Mosca. Il secondo ha mantenuto i collegamenti aerei giornalieri da Belgrado alla Russia mentre tutti gli altri Paesi europei chiudevano gli spazi dei cieli al Cremlino.
C’è, infine, il caso Germania. Dove l’invasione russa non solo ha gettato nuova luce sui lunghi anni di cancellierato di Angela Merkel, accusata di non aver previsto l’espansionismo di Mosca, ma ha anche tarpato le ali al nuovo governo di Olaf Scholz. Più che le indecisioni del Cancelliere nelle prime fasi del conflitto, a pesare è stata l’economia. La Germania dipende dal gas russo come e più dell’Italia.
Putin lo sa e si diverte a interrompere a più ripresele forniture adducendo ragioni di manutenzione. Il malcontento cresce e a maggio, nelle elezioni in Nordreno-Westfalia (il Lander tedesco più popoloso), i socialisti di Scholz hanno subìto la peggiore sconfitta della storia. Non solo: l’archiviazione del progetto Nord Stream 2ha deluso non poco il povero e disabitato Lander del Meclemburgo-Pomerania anteriore, che dalla messa in opera del gasdotto sperava di trarre quella spinta alla crescita sempre mancata. Esempio perfetto di come la frase di Draghi – «pace o condizionatori» – fosse un’improvvida semplificazione di uno scenario terribilmente più complicato. Continua a leggere su Il Tempo
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