La vera storia del genocidio dei Nativi Americani


Per secoli è stata celebrata come se fosse una storia di successo per l’intero pianeta. Ancora nel 1992, in occasione del cinquecentenario, in tutto il mondo si sono organizzate celebrazioni solenni. Il 12 ottobre rimane conosciuto nel mondo come il Columbus Day, ricorrenza che negli Usa è festa nazionale. Tra le tante pagine oscure della storia poche hanno goduto di una falsificazione tanto sfacciataquanto il genocidio dei nativi americani, dove i crimini commessi sono stati non solo rimossi ma anzi invertiti di senso e glorificati. Solo da pochi anni, a oltre mezzo millennio di distanza, si fa luce sulla vera storia della conquista delle americhe. La pagina più nera nella storia della civiltà occidentale.

È il 1519 quando il conquistadores spagnolo Hernan Cortés parte da Cuba, dove Colombo aveva costituito i primi insediamenti europei, alla volta del Messico con l’obiettivo di sottomettere l’antica civiltà azteca. Gli avventurieri spagnoli sono numericamente inferiori ma hanno dalla loro due assi nella manica: le armi in acciaio, che gli permettono di surclassare militarmente i rivali, e le malattie infettive. I conquistatori spagnoli sono portatori di virus mai esistiti nelle americhe e verso i quali i nativi non hanno anticorpi. Il contatto con il vaiolo e la peste stermina gran parte degli aztechi, che sono costretti a capitolare in pochi mesi. La terza arma dei conquistatori è la crudeltà. Questa viene utilizzata a piene mani nella più difficile guerra contro gli inca, autori di una resistenza valorosa sotto gli ordini di Tupac Amaru, che verrà spezzata solo dopo decine di assedi ed esecuzioni di massa. Nella seconda metà del XVI secolo gran parte dell’America del centro-sud è sotto il giogo degli spagnoli. Al posto delle loro civiltà millenarie i conquistatori creano latifondi e miniere di oro e argento, dove far lavorare in condizione di schiavitù i nativi rimasti in vita.

All’inizio del Cinquecento, mentre gli spagnoli dilagano nella parte centrale e meridionale del continente, francesi ed inglesi iniziano a esplorare le coste atlantiche della sua parte settentrionale.

La situazione nelle terre settentrionali era molto differente rispetto al sud delle grandi civiltà mesoamericane. A nord del fiume Rio Bravo la popolazione indigena non superava i 12 milioni di persone, riunite intribù indipendenti che vivevano secondo i precetti di dignità, fierezza e simbiosi con la terra. I primi coloni si stabiliscono in Florida, New Messico e in Qebec: gli indiani non li trattano con ostilità e lasciano loro prendere i terreni. Non hanno il concetto di proprietà privata e secondo il loro modo di vedere il mondo la terra appartiene a tutti gli animali e a tutti gli uomini, inclusi quei bianchi arrivati via mare. Ma ben presto scoprono che gli europei la pensano diversamente e non vogliono solo stabilirsi in qualche terra, vogliono possederle tutte quante. Gli inglesi partono dalla costa est spingendo progressivamente gli indigeni verso ovest.

Alcune tribù non si ribellano apertamente, continuano a credere che il nord sia abbastanza grande per tutti e fare la guerra per il possesso non è nella loro indole, tuttavia non accettano neppure di essere colonizzati, non è nella loro indole neppure diventare schiavi. Si sentono, e sono, uomini liberi. Altre tribù invece capiscono da subito che gli uomini bianchi sono assetati di dominio e ricchezze, e decidono di provare a fermarli prima che sia troppo tardi. Le tribù più numerose, come i Sioux e gli Apache, decidono di opporsi con le armi. Per oltre tre secoli la conquista del nord continua a dare problemi ai coloni euro-americani, essi riescono ad avanzare verso ovest ma la resistenza dei nativi è indomita, inoltre il loro rifiuto categorico di lavorare al soldo dei bianchi, preferendo la morte alla schiavitù, rende l’occupazione molto meno fruttuosa di quella degli spagnoli nel sud. Verso metà del 1800 il presidente americano Grant ordina la soluzione finale, dando carta bianca ai generali. Il 26 dicembre 1862 si tiene l’esecuzione di massa di 38 capi Sioux, i cui corpi rimangono esposti per giorni come monito per i nativi. Pochi mesi dopo riescono a catturare il vecchio capo Apache Mangas Coloradas, lo torturano prima di decapitarlo e poi inviano il teschio al governo, che lo espone in un museo. Nel ’64 ecco il massacro di Sand Creek, i coloni conquistano il territorio Apache, i nativi vorrebbero arrendersi e trattare la resa, si avvicinano sventolando bandiere bianche. Ma hanno osato resistere e questo non è accettabile per i coloni, tutti i 200 prigionieri vengono fucilati mentre gli scalpi dei capi vengono amputati ed usati come ornamenti.

Lo sterminio dei nativi del nord America in questi decenni è tanto più raccapriccianteperché portato avanti in modo scientifico. Nel 1800, gli Usa sono ormai una nazione e lo sterminio viene pianificato con agghiacciante freddezza. Gli indigeni che si ribellano vengono massacrati, mentre quelli risparmiati vengono rinchiusi nei campi di concentramento, le cosiddette “riserve indiane”. Mentre il Parlamento americano crea leggi apposite per autorizzare la pulizia etnica, come l’Indian Removal Act col quale nel 1830 si autorizzava la deportazione dei nativi per ragioni di sicurezza nazionale. Nel 1890 la “conquista del selvaggio west” come la retorica Usa ama ancora oggi chiamare questo genocidio, può dirsi conclusa. In tutto il nord America rimanevano in vita appena 250mila nativi. Erano 12 milioni quattro secoli prima.

Nelle americhe, sia del nord che del sud, tra il 1492 e il 1890 sono stati sterminati un numero compreso i 70 e il 115 milioni di nativi. Di gran lunga il più lungo e sanguinoso genocidio mai commesso nella storia umana.

Un genocidio che, esattamente come quello nazista, si è alimentato innanzitutto di pregiudizi culturali e religiosi, verso il quale nessuna delle istituzioni dell’epoca può essere considerata innocente, tanto meno la chiesa cattolica. Alla guida dei conquistadores spagnoli vi erano infatti vescovi e cardinali, che si spinsero fino a benedire le spade con le quali si fecero i massacri. I nativi venivano considerati esseri adoratori di divinità diaboliche e secondo la chiesa era legittimo sottometterli e costringerli alla conversione con ogni mezzo. Con il tempo poi alle giustificazioni religiose se ne sommarono altre che si pretendevano scientifiche, come le teorie sull’evoluzionismo culturale che legittimavano la sottomissione dei nativi, chiamandola “civilizzazione”. Mentre la nascente industria culturale, prima con i romanzi western e poi con i film contribuì a radicare l’immagine dei “pellerossa” barbari e violenti per natura, ai quali si opponeva l’epopea degli eroici bianchi alla scoperta del selvaggio West. Una falsificazione storica.

Oggi le vicende dei nativi americani possono sembrare racconti lontani nel tempo, ma non è così. Nonostante il massacro sono molti i nativi che vivono ancora nelle americhe. Nel centro e nel sud del continente ne rimangono decine di milioni che, dopo secoli di sfruttamento e privazioni in alcuni paesi stanno conoscendo finalmente il riscatto sociale. Le rivoluzioni bolivariane nate nel continente sul finire degli anni ’90, hanno portato in molti paesi alla nascita di governi più sensibili ai loro diritti, un processo culminato nell’elezione di Evo Morales a presidente della Bolivia nel 1998, il primo indios americano al potere dopo oltre quattro secoli.

Non si può dire lo stesso dei nativi rimasti in nord America. Nonostante vi sia stato un lento riconoscimento dei crimini commessi, culminato nelle scuse ufficiali presentate dal senato statunitense nel 2005, i nativi continuano a vivere in condizioni di drammatica esclusione sociale. Tra i giovani indigeni che vivono nelle riserve il tasso di suicidi è ancora oggi 150 volte superiore rispetto a quello dei coetanei bianchi, mentre l’alcolismo e la disoccupazione sono piaghe che colpiscono un nativo su cinque.

Così come non è ancora cessata neanche la presunzione da parte del governo Usa di poter disporre dei territori nativi come se fossero i propri. Lo dimostra il recente caso del Dakota Access Pipeline, il grande oleodotto in costruzione nelle zone sacre della nazione Sioux in Nord Dakota. I nativi hanno protestato per mesi, ottenendo in cambio ancora una volta una spietata repressione con cariche e arresti da parte della polizia. Un secolo fa per i bianchi la vita dei nativi non valeva più di quella degli animali, oggi non è più così, ma i loro diritti valgono comunque meno di un barile di petrolio.

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