di Matteo Carnieletto per Il Giornale
Due delle più frequenti, sin dall’inizio della pandemia, sono state: dove muoiono i malati di Covid? E, soprattutto, i loro decessi sono dovuti esclusivamente al Covid-19 o a altre patologie? Rispondere a questi quesiti non è facile. Soprattutto all’ultimo. Certo è che di Sars-Cov2 si muore, indipendentemente dal fatto che il virus rappresenti la causa unica o meno dei decessi. Se poi andiamo indietro nel tempo, alla prima ondata, ricordiamo i tanti, troppi, decessi in casa. I medici di base erano ingolfati e talvolta assenti. Chi riusciva ad arrivare in ospedale, spesso, lo faceva troppo tardi, quando ormai c’era da poco a fare. Le file interminabili di ambulanze e i posti letto, creati in fretta e furia nei parcheggi dei nosocomi, rappresentano immagini tristi che ancora oggi sono impresse nella nostra memoria.
Andrea Crisanti, microbiologo dell’università di Padova, si è posto una domanda fondamentale. Interrogato da Luca Sommi durante l’ultima puntata di Accordi e disaccordi, il professore ha così risposto, in merito ai posti delle terapie intensive: “Una persona rimane in media in terapia intensiva 20 giorni e ha una probabilità di decesso pari al 50%. Questo significa che ogni 20 giorni muoiono 800 persone in terapia intensiva, il che significa che muoiono 40 persone al giorno. Allora, io voglio porre un problema che, a mio avviso, ha anche una componente etica: dove muoiono le altre 260 persone (in realtà 320, secondo gli ultimi dati, ndr)? È una cosa che bisognerebbe dire perché i 300 morti non sono giustificati dai posti occupati in terapia intensiva”. Sommi lo incalza: “Cioè, lei vuole dire che ci sono morti annoverati come morti di Covid che sono al di fuori della terapia intensiva”. E Crisanti: “Certo, la matematica non è un’opinione, si vede in un attimo che è così”.
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