Vaticano S.P.A ecco tutti gli affari della Chiesa




Premessa di nwo-truthresearch: l’edizione italiana del libro
L’Oro del Vaticano, da cui è estratto il testo che leggerete, uscì nel 1971. In essa pertanto non troviamo informazioni aggiornate sulla reale estensione degli interessi finanziari del Vaticano in giro per il mondo; questo lavoro però è un raro e prezioso documento storico ad opera di un professore universitario statunitense che tentò, in tutta onestà, di quantificare la reale entità di questi interessi…


Capitolo 8 del libro L’Oro del Vaticano


(…)

Il fatto è che le imprese industriali del Vaticano sono talmente vaste e complesse che è pressoché impossibile fornirne un quadro completo.

Nel capitolo precedente abbiamo analizzato la partecipazione del Vaticano nell’industria edilizia tramite la Società Generale Immobiliare. Cercheremo ora di delineare le sue attività nel campo della meccanica, della produzione di energia, delle comunicazioni, delle assicurazioni e così via.

Il lettore tragga un respiro profondo prima di inoltrarsi in questo labirinto.

Non esiste quasi, crediamo, settore dell’economia italiana in cui non vi siano gli uomini del Vaticano a rappresentare gl’interessi della Chiesa; e quasi tutti occupano posizioni chiave nelle imprese in cui la Chiesa ha fatto degl’investimenti. Rimangono ai loro posti, inamovibili, col passare degli anni, e talvolta ricevono un compenso percentuale ai profitti realizzati dalla Santa Sede.

Per anni Bernardino Nogara figurò nel consiglio di amministrazione dellaMontecatini (oggi diventata Montecatini-Edison). Diamo un’occhiata a questa Società. Si tratta non soltanto del maggior complesso industriale italiano, ma di uno dei maggiori del mondo, e si occupa di miniere, di prodotti metallurgici, di fertilizzanti, di resine sintetiche, di fibre tessili, di prodotti farmaceutici, di energia elettrica, ed è vincolata al Vaticano da legami d’acciaio. Non si conosce l’entità della partecipazione vaticana a questa colossale impresa: probabilmente si tratta di una partecipazione minoritaria, ma non per questo di scarso peso. Dopo la scomparsa di Nogara numerosi uomini si sono succeduti al suo posto nel consiglio di amministrazione e hanno avuto voce in capitolo in tutte le decisioni di qualche importanza, prima fra tutte quella del 1966 relativa alla fusione con la Edison. Proprio in quell’anno il fatturato della nuova Società è salito a seicentottantatré milioni e novecentomila dollari, e il profitto netto a sessantadue milioni e seicentomila. Il bilancio del ’67 mostra un sostanzioso incremento in quasi tutti i settori di attività, con un fatturato di ottocentocinquantaquattro milioni di dollari e un profitto netto di oltre sessantasei milioni. Gl’investimenti della Montecatini in altre Società ammontano a poco meno di un miliardo di dollari, le sue proprietà immobiliari a più di venti milioni di dollari, i suoi impianti industriali hanno un valore di circa milletrecento milioni.

La Montecatini-Edison è associata a numerose Società straniere, tutte piuttosto floride. La Novamont Corporation di Neal (West Virginia) sta raddoppiando la sua capacità produttiva col proposito di dominare il mercato del polipropilene negli Stati Uniti. In Olanda la Compagnia Olandese dell’Azoto ha recentemente ammodernato i propri impianti a Sluiskil e portato la produzione giornaliera a mille tonnellate di ammoniaca e duemila tonnellate di fertilizzante al nitrogeno; ha inoltre iniziato la costruzione di un nuovo stabilimento che sarà in grado di produrre seicento tonnellate di urea al giorno. In Spagna la Pauler, consociata della Montecatini, ha allestito un nuovo stabilimento a Puertollano per la fabbricazione di polipropilene e di prodotti in tale materiale. In India, la Madras Aluminium Company sta per portare a cinquantamila tonnellate annue la produzione di allumina e a venticinquemila tonnellate quella di alluminio. Il gruppo brasiliano Heliogas è in continua espansione: serve milioni di utenti ed ha aumentato le vendite annue di gas liquido a circa centosessantamila tonnellate. Infine la Panedile Argentina nel corso del 1967 ha intrapreso lavori presso le dighe del Rio Hondo e ha completato a Ullun la costruzione di una centrale idroelettrica.

In Italia la Montecatini-Edison controlla non meno di diciannove Società: la Orobia, la Mineraria Prealpina, le Miniere di Ravi, la SORAP Società Raffinazione Petroli, la Miana Serraglia, la Ascona, la Clio, la Fortuna, laHermes, la Immobiliare Capricorno, la Melide, la Parnaso, la Ribolla, laSant’Agostino e la Società Mineraria Presolana, tutte di Milano; la Cieli e la Società Imprese Elettriche Scrivia, entrambe di Genova; la Società Emiliana di Esercizi Elettrici di Parma; la Resia di Casoria.



La Italcementi, che è ormai al secondo secolo di vita ed è passata sotto il controllo del Vaticano dopo la guerra, come dimostra il nome del presidente Carlo Pesenti, nome notoriamente legato al Vaticano, rappresenta il 32 per cento dell’intera produzione italiana di cemento; con una produzione di oltre trentasei milioni di tonnellate all’anno, è la quinta nel mondo in ordine d’importanza e la seconda in Europa. Ha più di seimilacinquecento dipendenti e nel 1967 ha riportato un profitto netto di cinque milioni e mezzo di dollari. Il capitale della Società, che ha sede a Bergamo, è di cinquantuno milioni e duecentomila dollari. La crisi dell’industria edilizia che colpì l’Italia dopo il 1964 la toccò abbastanza, e infatti i profitti, che erano stati di quattro milioni e duecentomila dollari nel 1965, scesero nel ’66 a meno di quattro milioni. Ma la compagnia ha assorbito abbastanza agevolmente la battuta d’arresto e, come attestano le cifre del ’67, la ripresa è stata abbastanza rapida. Massimo Spada, consigliere delegato, è del parere che l’inizio degli anni settanta vedrà una vigorosa ripresa. In questa prospettiva la Italcementi ha costruito e messo in funzione un nuovo stabilimento presso Brescia, di vasta estensione e con una capacità produttiva di seicentomila tonnellate all’anno, in gran parte cemento di nuovo tipo detto “Supercemento Italbianco”, a presa rapida e di particolare resistenza.

La Snia-Viscosa di Milano, che produce in Italia più del 70 per cento delle fibre tessili artificiali e sintetiche, è notoriamente guidata da finanzieri vaticani. Non appartiene direttamente alla Santa Sede, ma è legata allaCisa-Viscosa, produttrice di fibre viscose e di rayon, a alla Saici, fabbrica di cellulose, che appartengono, esse sì, al Vaticano. In più, la Sniapossiede importanti partecipazioni nel Cotonificio Veneziano che è sotto il controllo del Vaticano. Tra gli azionisti della Snia-Viscosa, il cui capitale è di ottantanove milioni e seicentomila dollari, è il gruppo tessile inglese Courtaulds; a sua volta la Snia è proprietaria di due attivissime Società tessili spagnole, di due in Brasile, due in Messico ed una ciascuna in India, Argentina e Lussemburgo, nelle quali il Vaticano ha partecipazioni che in alcuni casi raggiungono la maggioranza del pacchetto azionario. Per il 1966, anno in cui ha ricavato un profitto netto di nove milioni e settecentomila dollari, la Snia-Viscosa ha pagato un dividendo di centotrenta lire per ognuna delle sue quarantasei milioni e più di azioni. Nel 1967 i profitti calarono vertiginosamente a trecentodiecimila dollari, e la Società, pur lasciando invariato il dividendo, chiese agli azionisti di considerare l’opportunità di fondersi con una delle numerose compagnie similari, il che porterebbe a una “diversificazione”; operazione oggi effettuata con particolare frequenza dai regolatori della strategia economica del Vaticano.

Una delle maggiori Società del Vaticano, la Manifattura Ceramiche Pozzi, produttrice di lavabi, vasche da bagno e altre apparecchiature igieniche, ha conosciuto negli ultimi anni grosse difficoltà.

Il passivo del 1967, ammontante a due milioni di dollari, aggiunto a quello accumulato negli anni precedenti, portò a poco meno di quattordici milioni di dollari il deficit complessivo. Nessuna sorpresa, quindi, che nel corso del ’68 il Vaticano abbia gettato nella mischia uno dei suoi più abili “salvatori di bilanci”, il conte Enrico Galeazzi, che è entrato nel consiglio d’amministrazione come vicepresidente.

Con il suo capitale di circa trentasette milioni di dollari, la Pozzi è tuttavia una solida realtà nell’economia italiana. Aprendosi a nuovi campi di produzione (materie refrattarie, vernici, plastica, prodotti chimici) la Società, ricca di un’autentica tradizione, è riuscita a riorganizzarsi e dopo il 1967 ha condotto a termine la costruzione di una fabbrica d’impianti igienico-sanitari per il Governo ungherese e il progetto di uno stabilimento a Biserta per conto del Governo tunisino, entrambi realizzati da tecnici e maestranze della Società.

La Pozzi possiede anche il 90 per cento delle azioni di una Società francese e il 13 per cento di una brasiliana, che hanno entrambe conseguito, negli ultimi anni, vistosi utili, ed è l’unica proprietaria del nuovo stabilimento chimico Pozzi Ferrandina di Milano, che ha iniziato l’attività nel 1967 con un capitale di circa diciotto milioni di dollari. Da quando il conte Galeazzi si è installato alla guida della Società, la Pozziha ripreso il suo cammino ascensionale, si avvia a risolvere la crisi e punta a superare entro pochi anni la cifra di quarantatré milioni di dollari di esportazioni, massimo livello raggiunto negli anni di maggior floridezza.

Tra le più ramificate Società di cui il Vaticano abbia il totale controllo è l’Italgas, con sede a Torino. Forte di un capitale sociale di almeno sessanta milioni di dollari, questa Società fornisce il gas, tramite compagnie affiliate, a trentasei città italiane, fra cui Roma, Torino, Firenze, Venezia. Nell’anno finanziario 1967-68 ha erogato seicentosettantanove milioni di metri cubi di gas per usi domestici, ricavando un profitto netto di circa tre milioni e mezzo di dollari.

Negli ultimi due decenni la Italgas ha assunto il controllo di un buon numero di Società tutte in qualche modo legate all’industria del gas:Cledca (catrame), Iclo(anidridi), Funivie Savona San Giuseppe (minerali ferrosi e fosforo), Fornicoke(coke per altiforni), Pontile San Raffaele(coke), Cokitalia (distillati), Società acque potabili di Torino, Carbonifera Chiappello (impianti di riscaldamento),Propaganda Gas (stufe), Urbegas(impianti per il gas), Forni ed impianti industriali Ingg. De Bartolomeis di Milano (forni per l’industria). Di quest’ultima la Italsgas possiede soltanto una caratura del 20,29 per cento.

Qualche tempo fa mi capitò di dire a un amico americano in visita a Roma che il Vaticano era proprietario di una fabbrica di spaghetti. “Il Vaticano”, osservò facetamente il mio amico, “si farà ricco maneggiano tutto questo grano!”

La Molini e Pastifici Pantanella, di cui il Vaticano ha la proprietà completa, è una Società produttrice di vari tipi di pasta, nonché di panettoni e di una gran varietà di tipi di biscotti. Forte di un capitale di sedici milioni e trecentomila dollari, la Pantanella raccolse nel 1966 un profitto netto di oltre duecentonovantamila dollari, ma l’anno successivo subì un tracollo. Secondo il suo amministratore, Marcantonio Pacelli, il crac fu principalmente dovuto ad alcuni provvedimenti governativi del luglio del 1967, che procurarono fastidiose restrizioni ai pastifici e imposero un controllo sui prezzi del grano. Ma, come il mio amico evidentemente sapeva, il Vaticano non rischia certo di perdere “grano” (vocabolo che gl’italiani usano per “danaro”) con tutta una serie di Società di cui esso ha la proprietà o il controllo completo, o che è in grado d’influenzare grazie a partecipazioni minoritarie, e che secondo i più recenti calcoli godono ottima salute. Si tratta delle seguenti società:Società Mineraria del Trasimeno (capitale tre milioni e duecentomila dollari), Istituto Farmacologico Serono (un milione e quattrocentomila dollari), Società Dinamite (seicentoventiquattromila dollari),Torcitura di Vittorio Veneto (ottocentomila dollari), Fisac-Fabbriche Italiane Seterie e Affini Como (tre milioni e quattrocentomila dollari), Concerie Italiane Riunite di Torino (quattro milioni di dollari), Zuccherificio di Avezzano (un milione e seicentomila dollari), Cartiere Burgo (ventitré milioni e duecentomila dollari), Industria Libraria Tipografica Editrice di Torino (un milione e seicentomila dollari), Editrice Sansoni di Firenze (un milione e ottantamila dollari).



Le seguenti altre industrie, nelle quali il Vaticano ha interessi finanziari più o meno rilevanti, hanno chiuso negli ultimi anni in pareggio o in passivo i loro bilanci: Società Santa Barbara (capitale quattro milioni e ottocentomila dollari), Caffaro Società per l’industria chimica ed elettronica (nove milioni e seicentomila dollari), Salifera Siciliana (un milione e centomila dollari), Società prodotti chimici superfosfati(duecentoquarantacinquemila dollari), Bottonificio Fossanese(quattrocentottantamila dollari), Saici Società agricola industriale per la cellulosa italiana (ventiquattro milioni di dollari), Cotonificio Veneziano(tre milioni e duecentomila dollari), Lanificio di Gavardo (un milione e quattrocentomila dollari), Fabbriche Formenti (possedeva un capitale di un milione di dollari, che ha ridotto a un decimo), Molini Antonio Biondi di Firenze (novecentosessantamila dollari), CIT (ottocentomila dollari) eCIM (un milione e duecentomila dollari).

Ciò per quel che riguarda le imprese private. Si pone ora la domanda se il Vaticano abbia degl’interessi anche nelle imprese statali. Nessuna meraviglia che la risposta sia affermativa. Diamo un’occhiata a questo fenomeno, che per la mentalità americana è abbastanza abnorme, dello Stato che si mette a far concorrenza agli imprenditori privati.

Negli anni del dopoguerra il disordinato espandersi dell’economia italiana corse più di una volta sul filo del rasoio. Emergendo dalla catastrofica esperienza fascista, l’economia del Paese, grazie anche ai massicci investimenti vaticani, passò dalla rovina più completa al boom delleVespe e poi delle Fiat. Nel decennio 1953-63 la produzione nazionale aumentò del 143 per cento, raggiungendo un ammontare di oltre quarantacinque miliardi di dollari. Nel 1967 il reddito nazionale era arrivato a sessantasei miliardi di dollari, e per gli anni successivi erano previsti aumenti costanti del 5,5 per cento. Per comprendere appieno fino a che punto le ricchezze del Vaticano abbiano giovato all’economia italiana bisogna esaminare la struttura e la funzione dell’”Istituto per la Ricostruzione Industriale”. L’IRI è un organismo pubblico a cui il governo italiano affida specifiche funzioni imprenditoriali. Esso controlla centotrenta Società, seguendo in tutto e per tutto i criteri con cui vengono amministrate le imprese private.

Quello che rende l’IRI un organismo unico nel suo genere è il fatto ch’esso mette sotto il controllo dello Stato un vasto complesso d’industrie, comprendenti non soltanto radio e televisione, ferrovie, linee aeree e marittime, ma anche industrie come quelle dell’acciaio, fabbriche automobilistiche, Banche. L’IRI entra dunque in diretta concorrenza con l’industria privata, e dà lavoro in pratica a centinaia di migliaia di persone. Il tasso quotidiano dei suoi investimenti è di tre milioni di dollari, la sua cifra annua d’affari di almeno tre miliardi di dollari, il valore patrimoniale dei suoi complessi industriali è di circa dodici miliardi di dollari. Creato nel 1933, dopo che il crac di Wall Street del 1929 aveva prodotto anche in Europa una reazione a catena, all’IRI vennero attribuiti due compiti fondamentali: 1) dare ossigeno alle Banche italiane che vedendo in pericolo le loro partecipazioni nelle industrie in difficoltà erano impossibilitate a garantire i depositi dei loro clienti; 2) rimettere in sesto l’industria italiana. Occorsero non meno di sette anni per assolvere questo compito; ma alla fine il credito aveva ripreso respiro e l’industria era rifiorita. Il Governo italiano riconsiderò allora le possibilità dell’IRI, e constatando che il gigantesco organismo controllato dallo Stato aveva rappresentato un esperimento positivo riuscendo perfettamente, nelle più difficili condizioni, ad adempiere le funzioni assegnategli, decise di farne un’istituzione permanente.

Per ogni lira che ricevono dallo Stato le imprese “irizzate” debbono procurarsene altre dodici da privati. E poiché nessuna di queste imprese sarebbe in grado di finanziarsi autonomamente coi propri capitali, l’IRI lancia titoli sul libero mercato. Si calcola che non meno di mezzo milione d’italiani abbia investito i propri risparmi in titoli dell’IRI. Il maggior acquirente è stato il Vaticano. Non c’è modo di conoscere l’entità degl’investimenti che i rappresentanti del Vaticano hanno fatto nelle attività dell’IRI, ma si conoscono i settori nei quali il Vaticano è intervenuto più massicciamente. Bisogna precisare innanzi tutto che in nessuna delle Società irizzate il Vaticano ha cercato di ottenere una partecipazione maggioritaria, anche se in talune di esse ha il portafoglio più consistente. Ma bisogna anche ricordare che, essendo la Democrazia Cristiana al governo da più di venti anni, i capitali vaticani han potuto agevolmente esser connessi alla maggior parte delle operazioni economiche promosse dall’IRI.

Gli avversari dell’IRI l’accusano di essere la palla al piede dell’economia italiana. In realtà, costoro al di là dell’IRI spianano le armi contro il Governo italiano e il Vaticano stesso. La incertezza economica che ha caratterizzato la parte centrale degli anni sessanta ha scoraggiato gl’investimenti privati, e in realtà negli ultimi anni le aziende private non son riuscite che a trarre modici guadagni dall’emissione di azioni. Oggi l’IRI e le altre imprese controllate dallo Stato realizzano il quaranta per cento degl’investimenti che si fanno in Italia. L’iniziativa privata è amaramente consapevole di questa realtà. L’IRI in verità, ha sempre sostenuto, spalleggiato dal Vaticano, di non aver mai ostacolato le industrie private nell’intraprendere tutte le iniziative che volessero, né sottraendo loro i capitali disponibili sul mercato né in alcun modo. Il fatto è che spesso l’IRI mostra maggior spregiudicatezza e determinazione di quanta ne abbia l’industria privata.

Negli ultimi anni l’IRI ha mostrato una certa tendenza a flirtare con l’industria americana, e alcuni dei maggiori organismi economici degli Stati Uniti oggi hanno partecipazioni in Società sussidiarie dell’IRI. LaU.S. Steel Corporation è proprietaria al 50 per cento di due stabilimenti siderurgici dell’IRI; la Armco International è anch’essa cointeressata per metà in un’altra fabbrica di acciaio; la Raytheon e la Vitro Corporation hanno una partecipazione in due delle più redditizie industrie elettroniche dell’IRI. A sua volta, la Siderexport, Società sussidiaria dell’IRI, partecipa al 50 per cento alla proprietà della Dalminter di New York.

E’ a Bernardino Nogara che il Vaticano deve la sua solida posizione nell’ambito dell’IRI. Egli previde che gli enormi investimenti fatti nelle industrie statali sarebbero alla lunga risultati redditizi. Si vuole che a stimolare Nogara a muoversi in quella direzione sia stata la prima relazione fatta dal Governatore della Banca d’Italia dopo la fine della guerra, nella quale si leggeva fra l’altro:”Per noi c’è una svolta. Ci sono due strade: una ardua e faticosa, che porta avanti, l’altra piatta e agevole, che conduce alla rovina.”

Nogara fu chiaroveggente. Benché fosse devastato dalle spaventose distruzioni che la guerra aveva inflitto alle fabbriche e a tutte le installazioni industriali, il Paese avrebbe necessariamente scelto la prima strada e avrebbe sollecitamente avviato la propria ricostruzione. Quale miglior investimento, per i capitali vaticani, del gruppo delle acciaierie statali Finsider? Anche se gl’impianti erano andati in completa rovina, laFinsider prometteva un sensazionale sviluppo una volta che si fosse dato avvio al programma di ricostruzione.

All’inizio del periodo postbellico la produzione annua di acciaio dellaFinsider fu inferiore a un milione di tonnellate. Oggi ha più che decuplicato quella cifra. Contribuendo in modo determinante a render l’Italia autosufficiente per quanto riguarda il fabbisogno di ferro e di acciaio, la Finsider è stata un fattore decisivo dello sviluppo dell’economia e ne è diventata uno dei pilastri più solidi. Ha circa settantaseimila dipendenti, una spesa annuale, per i soli dipendenti, di duecentottantacinque milioni di dollari, e raggiunge un netto utile di oltre ventiquattro milioni di dollari.

La nascita della “Comunità Europea per il Carbonee l’Acciaio” (CECA) diede un poderoso impulso allo sviluppo della Finsider. Il Vaticano e il partito democratico cristiano intravidero subito i vantaggi che potevano derivare dall’ingresso dell’Italia nel nuovo organismo. Significava porre fine al protezionismo che aveva caratterizzato per anni l’industria siderurgica italiana ed entrare in concorrenza con i più grossi produttori del mondo intero. Oggi, l’Italia occupa il settimo posto nella graduatoria del Paesi produttori di acciaio.



La potenza attuale della Finsider appare con chiarezza dalle sue partecipazioni in compagnie sussidiarie. Essa possiede, per esempio, il 51,6 per cento dell’Italsider, che produce ghisa di alto forno, lingotti d’acciaio, profilati a caldo e a freddo, tubi saldati; è anche azionista di maggioranza della Dalmine, specializzata in lingotti d’acciaio e in tubi con saldature e senza. La Terni appartiene quasi totalmente (novantasette per cento) alla Finsider. La Terni produce lingotti, profilati a caldo e a freddo, colate, fornaci. Almeno altre venti società, infine, che svolgono attività nel settore, sono sotto controllo o hanno importanti partecipazioni della Finsider.

Ma il più grosso investimento del Vaticano in aziende IRI è probabilmente quello riguardante l’Alfa Romeo, che con un capitale di settantadue milioni di dollari e una produzione di poco meno di centomila vetture l’anno è la seconda Casa automobilistica italiana, e che per gl’inizi degli anni settanta ha programmato, grazie soprattutto al nuovo complesso dell’Alfa Sud, costruito nei pressi dei Napoli e costato cinquecento milioni di dollari, una produzione annuale di più di duecentocinquantamila vetture.

Quello dell’Alfa Sud è stato un motivo di contrasto fra la Fiat, che controlla più del 75 per cento del mercato automobilistico italiano, e l’IRI. Il presidente della Fiat, Gianni Agnelli, se la prese col Governo italiano, con la Democrazia Cristiana e col Vaticano, che congiuntamente cercano d’incoraggiare la costruzione di nuovi impianti industriali nelle regioni economicamente più depresse. La Fiat definì l’Alfa Sud “un errore economico”. Piuttosto che creare un nuovo impianto automobilistico a Napoli, sosteneva Agnelli, l’Alfa Romeo e i suoi patroni (IRI e Vaticano) farebbero meglio ad associarsi alla Fiat per realizzare un altro progetto, per esempio la creazione di un’autentica industria aeronautica. La curva ascensionale del mercato automobilistico in Europa, continuava Agnelli, ha già toccato il massimo, e per gli anni settanta è anzi da prevedere un pericolo di sovrapproduzione. Ma Agnelli perse la sua battaglia.

Benché il principale investimento del Vaticano nelle aziende IRI sia probabilmente quello dell’Alfa Romeo, considerevoli quantità di danaro pontificio sono anche impegnate nella Finmeccanica, una holding che coordina e finanzia le aziende IRI che lavorano nel campo delle costruzioni meccaniche. Si tratta di trentacinque aziende; in altre trentadue, che esercitano attività ausiliarie, la Finmeccanica ha una partecipazione minoritaria. Il Vaticano ha il controllo di alcune di queste Società.

Con tutte le sue affiliate la Finmeccanica è la più grossa concentrazione industriale che esista in Italia ed agisce praticamente in tutti i settori dell’industria meccanica, dai motori e macchie elettriche all’elettronica, dagli aerei alle locomotive, dal materiale pesante agli strumenti di precisione, dagli apparecchi da riscaldamento agli armamenti moderni (soprattutto carri armati e tanks). Con l’ausilio degl’investimenti vaticani il gruppo Finmeccanica ha compiuto considerevoli progressi dal 1959 ad oggi, portando i suoi profitti da centottantacinque milioni e seicentomila dollari a oltre quattrocentoventi milioni, e il valore delle esportazioni da quarantun milioni e cento milioni di dollari.

Capitali vaticani viaggiano anche con la Finmare, altra holding dell’IRI che raggruppa la quattro maggiori Società italiane di navigazione marittima (Italia, Lloyd Triestino, Adriatica e Tirrenia). Ricca di un’antica tradizione marinara e fidando su un vasto movimento turistico, l’Italia non ha mai sottovalutato l’importanza della sua flotta; quella della Finmare trasporta annualmente il 70 per cento dei passeggeri nazionali, è a secondo posto nel mondo per numero di passaggi effettuati sulla rotta tra l’Europa e l’America del Nord, e al primo posto per quel che riguarda la rotta Europa-America del Sud. Il capitale della Finmare è di ventotto milioni e ottocentomila dollari, le novanta navi, con una stazza complessiva di oltre settecentomila tonnellate, trasportano ogni anno circa due milioni di passeggeri e due milioni di tonnellate di merci; i ricavi lordi si aggirano sui centocinquanta milioni di dollari all’anno. Appartengono alla compagnia Italia (una delle quattro della Finmare) i due lussuosi transatlantici Raffaello e Michelangelo, di circa quarantaseimila tonnellate ciascuno, impiegati sulla rotta nord-atlantica e alla cui costruzione non furono certamente estranei importanti finanziamenti vaticani.

Non è facile accertare quale sia l’esatta estensione degl’investimenti e del controllo del Vaticano nei confronti della principale compagnia telefonica italiana, ma si può affermare tranquillamente che sono considerevoli sia i primi che il secondo, e che all’influenza vaticana si deve se la STET è un organismo solido e, dal punto di vista economico, di tutto rispetto. Nell’assemblea degli azionisti del luglio 1968 fu comunicato che gli utili netti erano stati, per il secondo anno consecutivo, di venti milioni di dollari. Il suo capitale, recentemente aumentato di sedici milioni, è attualmente di trecentoquattro milioni di dollari. Gli utenti sono sei milioni (il doppio che nel ’58), i dipendenti cinquantottomila. Per il 1970 erano previsti investimenti per un totale di millecentoventi milioni di dollari per nuove apparecchiature e allacciamenti, e un aumento del personale di diecimila unità.

La STET si è anche lanciata alla conquista di altre compagnie: di alcune di esse è addirittura l’unica proprietaria. Se infatti nella SIP (“Società italiana per l’esercizio telefonico”) ha una maggioranza del solo 53 per cento, e nell’Italcable del 60 per cento, nella Società italiana telecomunicazioni Siemens possiede il 98 per cento delle azioni, e nellaSETA (“Società Esercizi Telefonici Ausiliari”) e nella Fonit-Cetra (dischi) il 99,99 per cento. Il 100 per cento delle carature le appartengono per laSAIAT (“Società Attività Immobiliari Ausiliarie Telefoniche”), per il CSELT(“Centro Studi e Laboratori per le Telecomunicazioni”), per la SAGAS(“Società per Azioni Grandi Alberghi e Stazioni climatiche”) e per la SEAT(“Società Elenchi ufficiali degli Abbonati al Telefono”). Partecipazioni di minoranza ha invece in altre Società: nella RAI il 22,9 per cento, inTelespazio e nella GEMINA (“Geomineraria Nazionale”) un terzo esatto, nella Ates-Componenti elettronici il 20 per cento, nella SIRTI (“Società Italiana Reti Telefoniche Interurbane”) il 10, nella SIEO (“Società Imprese Elettriche d’Oltremare”) l’11,09, nella SAGAT (“Società Azionaria Gestione Aeroporto di Torino”) il 4,5 per cento.

Altro campo d’azione del Vaticano è il settore bancario. Tre dei maggiori istituti del Paese, la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e ilBanco di Roma, pur appartenendo al gruppo IRI, sono strettamente legati alla Santa Sede. Assieme all’istituto direttamente gestito dal Vaticano, ilBanco di Santo Spirito, raccolgono un quinto degl’interi depositi bancari, hanno finanziato il 50 per cento dei contratti commerciali con l’estero e collocato due terzi di nuove emissioni azionarie e obbligazionarie sul mercato borsistico italiano.

Pochi anni fa le tre Banche hanno raddoppiato i loro capitali sociali emettendo nuove azioni al fine di conseguire un miglior equilibrio tra le proprie risorse e i depositi. Il capitale della Commerciale passò da trentadue a sessantaquattro milioni di dollari, quello del Credito Italianoda ventiquattro a quarantotto, quello del Banco di Roma da venti a quaranta.



Nel giro di pochi anni i depositi e i conti correnti istituiti dalla clientela dei tre istituti hanno raggiunto un importo complessivo di oltre sei miliardi di dollari, che costituisce appunto il 20 per cento circa dei depositi bancari italiani.

Quanto al Banco di Santo Spirito, fondato da Paolo V nel 1605, si tratta di uno dei più antichi istituti di credito del mondo, ed è fornito di un capitale sociale di dodici milioni e ottocentomila dollari. I risparmi accumulati nelle sue casse son saliti tra il 1966 e il 1967 da seicentosessantasette a settecentoventinove milioni di dollari, il profitto netto ha superato la quota di un milione e duecentoquarantamila dollari.

Le quattro Banche su menzionate hanno sede a Roma; ma l’autentica forza bancaria del Vaticano risiede nell’Italia settentrionale, dove la Banche ch’esso controlla, soprattutto in Lombardia, nel Veneto e in Emilia, sono, se possibile, ancor più floride delle “quattro grandi” romane. Capofila di queste Banche del Nord è il Banco Ambrosiano, fondato nel 1896, il quale, con un capitale di 6 milioni e duecentoquarantamila dollari, ha registrato per due anni consecutivi, 1966 e 1967, un utile netto di un milione e quattrocentomila dollari, e ha pagato un dividendo di duecentoventi lire a tre milioni di azioni, per un totale di circa un milione e cinquantaseimila dollari.

Anni fa il Banco Ambrosiano acquisì delle partecipazioni in tre istituti finanziari stranieri: la Banca del Gottardo di Lugano e due Banche lussemburghesi, la Kredietbank e l’Interitalia. Nell’attesa che il Parlamento italiano approvasse la legge per l’istituzione dei fondi d’investimento italiani (legge che da tempo il Governo aveva predisposto) le Banche su menzionate, tutte controllate dal Vaticano, crearono un servizio che consentiva agl’italiani di acquistare quote di fondi esteri. Alla fine del 1967 detti investimenti fatti attraverso gl’istituti creditizi di oltre frontiera ammontavano a ben quattro milioni e mezzo di dollari. Più recentemente altre due organizzazioni bancarie legate al Vaticano, La Centrale e la Banca Provinciale Lombarda, han deciso di dedicarsi al lucroso affare di acquistare quote di fondi di investimento stranieri sui mercati svizzero e lussemburghese. La Banca Provinciale Lombarda si è anzi associata alla Dutch Robeco e alla German Concentra, imprese d’investimenti finanziari, per rendere più agevole ai risparmiatori italiani l’acquisto delle quote di fondi stranieri. E questa profittevole attività di Società bancarie straniere o imprese d’investimenti legate al Vaticano ha continuato a svolgersi sul mercato finché il Parlamento italiano non ha votato la legge sui fondi comuni d’investimento.

Gli affari delle Banche dell’Italia settentrionale legate al Vaticano sono diventati così intricati che è praticamente impossibile seguirne tutte le ramificazioni. Per ottenere un minimo di chiarezza escluderemo tutte quelle Banche che abbiano un capitale inferiore a ottantamila dollari, e divideremo le altre in tre categorie. Nella prima, troviamo sette grosse Banche gestite direttamente dal Vaticano: Banco Ambrosiano di Milano, Banca Provinciale Lombarda, Piccolo Credito Bergamasco, Credito Romagnolo, Banca Cattolica del Veneto, Banco di San Geminiano e San Prospero, Banca di San Paolo. Nella seconda categoria, vi sono tredici Banche alle quali la Chiesa è fortemente interessata pur senza averne il controllo diretto: Banca Nazionale dell’Agricoltura, Banca di Credito e Risparmio di Roma, Banca Popolare di Bergamo, Banca Piemonte di Torino, Banca del Fucino di Roma, Banca Romana, Banca Torinese Balbis e Guglielmone, Banca dei Comuni Vesuviani, Istituto Bancario Romano, Banca di Trento e Bolzano, Credito Mobiliare Fiorentino, Banca del Sud, Credito Commerciale di Cremona. Alla terza categoria appartengono sessantadue Banche nelle quali il Vaticano, pur avendo solo una piccola quota d’interesse, ha piazzato uno o più dei suoi uomini nei consigli di amministrazione o nei posti direttivi. Tra le più importanti di questo gruppo si annoverano la Banca Popolare Cooperativa di Novara, il Credito Varesino, il Credito di Venezia e del Rio de la Plata, la Banca Agricola Milanese, la Banca Emiliana, la Banca di Chiavari e della Riviera Ligure, il Credito Bresciano e la Banca Popolare di Verona.

C’è infine da osservare che migliaia di piccolissime Banche rurali sparse in tutta Italia appartengono al cento per cento al Vaticano oppure alle locali chiese parrocchiali, su cui il Vaticano esercita un costante controllo inviando periodicamente dei finanzieri. La maggior parte di queste piccole banche si trovano nell’Italia meridionale o in Sicilia e Sardegna. Per quel che se ne sa, in queste regioni il Vaticano controlla soltanto due grandi banche: il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia.

Nel corso del 1967 otto Banche acquistate dalla Italmobiliare, un istituto finanziario di proprietà della Italcementi, si fusero per dar vita a un nuovo “Istituto Bancario Italiano” (IBI). L’Italmobiliare, che possiede riserve per più di nove milioni di dollari e ha dichiarato per il 1967-68 un profitto di seicentoquarantaduemila dollari, è diretta da Carlo Pesenti, che è ritenuto da molti il più abile banchiere italiano e che è certamente uno dei più sicuri paladini degl’interessi vaticani in questo campo. Pesenti, che è anche direttore generale dell’Italcementi, acquisì le otto Banche una per volta nello spazio di cinque anni. Pesenti fu il protagonista di quella che viene considerata una delle più brillanti operazioni finanziarie nella storia economica del dopoguerra italiano: agendo pressoché da solo, egli creò l’Istituto Bancario Italiano facendo incorporare dal Credito di Veneziae del Rio de la Plata (di cui era proprietario e il cui capitale è di quattro milioni e ottocentomila dollari) altre sette Banche: la Balbis e Guglielmone (capitale due milioni e quattrocentomila dollari), la Banca di Credito e Risparmio di Roma (due milioni e quattrocentomila dollari, l’Istituto Bancario Romano (ottocentomila dollari), la Banca di Credito Genovese (un milione e centoventimila dollari), la Banca Romana (due milioni e quattrocentomila dollari), il Credito Mobiliare Fiorentino (un milione e centoventimila dollari) e la Banca Naef-Ferrazzi-Longhi di La Spezia (seicentoquarantamila dollari). Piazzandosi immediatamente tra i primi venti istituti bancari italiani, grazie all’entità dei depositi che complessivamente superavano i cinquecentododici milioni di dollari e a un ammontare di capitale e di circa ventidue milioni di dollari, il nuovo IBIconseguì nel suo primo anno di vita (1967) un risultato di tutto rilievo per una creatura appena nata, con un profitto netto di ottocentomila dollari.

Presidente del nuovo gruppo bancario è lo stesso Pesenti (il quale tra l’altro controlla altri due importanti istituti bancari: la Banca Provinciale Lombarda e ilCredito Commerciale di Cremona); vicepresidente è Massimo Spada. La fondazione dell’IBI non è che la prima di una complessa serie di fusioni bancarie progettate dal Vaticano. La successiva riguarda appunto le due Banche di Pesenti, la Provinciale Lombarda e il Credito Commerciale di Cremona; ne risulta la creazione di una combinazione bancaria che può contare su milleduecentottanta milioni di dollari di depositi, presentandosi come la più grande concentrazione di Banche private che esista non soltanto in Italia, ma in buona parte dell’intera Europa, Svizzera compresa.

Ma non si creda che l’attività bancaria del Vaticano si limiti all’Italia. Fondi gestiti dalla Prefettura per gli affari economici sono depositati in numerose Banche non italiane, in parte in America e in gran parte in Svizzera, dove sono accreditati su conti cifrati. Nessuno sa esattamente quanto danaro vaticano giaccia nei forzieri svizzeri, ma è evidente che la preferenza della Santa Sede per le banche svizzere è dovuta alle garanzie che la moneta di quel Paese offre contro ogni pericolo d’inflazione e di svalutazione. A partire dal 1945 si sono avute in tutto il mondo più di centosettanta svalutazioni, dodici delle quali nel solo Brasile. A differenza del dollaro americano e della sterlina britannica le cui riserve auree in realtà non superano il cinquanta per cento del circolante, il franco svizzero è garantito dall’oro al centotrenta per cento. In considerazione, dunque, di questa straordinaria solidità della moneta svizzera, il Vaticano fa incetta di franchi e li cambia in monete di altro tipo quando ne ha bisogno.

I depositi svizzeri permettono anche al Vaticano di conservare l’anonimato quando acquista il controllo di una Società straniera. A differenza di quelle americane, le Banche svizzere si prestano a far da intermediarie acquistando azioni per conto di clienti, ma non sotto il loro nome. Il Vaticano, così come fanno altri clienti, può far acquistare titoli di una determinata Società da una Banca svizzera e a nome di questa, riuscendo così a ottenere il controllo di una impresa senza che nulla trapeli. Gli “Gnomi di Zurigo”, come gl’inglesi definiscono gli operatori bancari svizzeri, sostengono tuttavia che la percentuale delle azioni che le loro Banche detengono in Società nord-americane non supera l’uno per cento dell’intero mercato americano. Qualsiasi congettura sull’entità dei capitali che il Vaticano può aver investito silenziosamente nell’economia statunitense, per lo meno nel settore dei titoli azionari, deve dunque tener conto di detta cifra.

Considerando che le operazioni bancarie elvetiche sono fondate sulla segretezza (uno stile a cui non sono certo insensibili i finanzieri vaticani), il Vaticano e l’IRI, in qualità di azionisti di maggioranza, governano ilBanque de Rome Suisse, filiazione elvetica del Banco di Roma. Ha un capitale di quindici milioni e duecentomila dollari e, essendo soggetta alle leggi svizzere, tiene i nomi dei suoi depositanti avvolti nel più impenetrabile silenzio.

Un aspetto significativo della ben calcolata articolazione dei programmi finanziari del Vaticano è quello offerto dalle attività, assai discrete, peraltro, dei suoi vari istituti di credito. Molto tempo e spazio occorrerebbero per fissare in modo esauriente il ruolo giocato dagl’investimenti vaticani nell’attività creditizia italiana; ma si può calcolare che su circa centottanta istituti di credito a medio e lungo termine operanti in Italia, almeno un terzo sono alimentati da capitali del Vaticano.

Bisogna ricordare che i prestiti a lungo termine sono un fattore essenziale per la realizzazione dei programmi di espansione, e che da questo punto di vista i fondi vaticani han fatto molto per sostenere le imprese di piccolo e medio calibro, alle quali risultava particolarmente arduo procurarsi liquidi sul mercato dei capitali, e pertanto han contribuito in misura rilevante a determinare un crescita equilibrata dell’economia italiana nel dopoguerra. In questa prospettiva due aspetti appaiono particolarmente importanti e meritano di essere sottolineati: l’apporto finanziario degl’istituti di credito vaticani si è andato estendendo, soprattutto negli ultimi anni, al processo d’industrializzazione delle zone depresse meridionali; l’appoggio fornito dall’economia vaticana agevola la politica dell’industria italiana di penetrazione nei mercati esteri.

Gl’istituti di credito a medio e lungo termine rivolgono la loro attenzione a determinati settori dell’economia, concedendo finanziamenti, per esempio, all’industria, ai servizi pubblici, alle Società edilizie, all’industria cinematografica. Alcuni agiscono su scala nazionale, mentre altri si limitano a un’attività regionale; alcuni praticano indifferentemente il credito a medio o a lungo termine, mentre altri si specializzano nel medio termine. Assieme alle Banche, questi istituti costituiscono le principali fonti di capitali freschi e forniscono in forma massiccia i mutui o il liquido per l’acquisizione di titoli.

Fra questi istituti finanziari uno dei più importanti è la Centrale, di cui s’ignora in che misura sia legata al Vaticano, mentre se ne conoscono gli stretti vincoli con la Pirelli, che praticamente la controlla. Ma l’influenza del Vaticano, anche se sfugge a un concreto controllo, è comunemente data per scontata negli ambienti finanziari italiani.

L’area in cui la Centrale preferiva muoversi fino a qualche anno fa era quella dell’industria elettrica, ma dopo la nazionalizzazione di questo settore, attuata dal Governo, essa si è inserita con successo in altri settori come l’agricoltura, l’industria mineraria e quella meccanica, sia in Italia che all’estero. Il suo capitale ammonta oggi a oltre centosette milioni di dollari e le sue liquidità a poco meno di duecentosettantasette milioni di dollari, di cui centosedici investiti in azioni di circa cinquantacinque Società e non meno di sessanta dati in prestito alle medesime. In più è stato fatto credito di centocinquantasei milioni di dollari alla ENEL, che è la compagnia elettrica nazionalizzata. L’anno finanziario 1967 si è chiuso per la Centrale con un profitto netto di oltre sedici milioni e mezzo di dollari.

In quello stesso anno la Centrale ha assorbito la Romana Finanziaria Sifir, di proprietà del Vaticano, che ha portato un capitale di settantadue milioni di dollari e una liquidità di centosessantotto milioni di dollari (di cui diciotto milioni circa investiti in azioni di altre trentasei Società e più di ventidue milioni impegnati in crediti, oltre a un prestito speciale all’ENEL di settanta milioni e quattrocentomila dollari).

Un istituto creditizio di cui il Vaticano ha la proprietà completa e assoluta è la Società Finanziaria Industria e Commercio con quattrocentottantamila dollari di capitale. Altri istituti analoghi di cui la Santa Sede ha la proprietà o il controllo parziale sono: la Società Capitolina Finanziaria (quattrocentomila dollari di capitale), il Credito Fondiario (sedici milioni di dollari), la Società Mineraria del Predil (trecentottataquattromila dollari), la Società Finanziaria Italiana di Milano (quattrocentomila dollari), la Fiscambi di Roma e di Milano (un milione e seicentomila dollari), la Efibanca – Ente Finanziario Interbancario (capitale sedici milioni di dollari) e la Sind di Milano (capitale un milione e seicentomila dollari).

Alcune compagnie di assicurazione sono di proprietà del Vaticano; altre sono soltanto controllate da finanzieri apostolici. Nel primo gruppo rientrano due fra le più grosse compagnie italiane: le Assicurazioni Generali di Venezia e Trieste, con un capitale sociale di ventitré milioni e duecentomila dollari e un profitto, per il 1967. di oltre quattro milioni e seicentosettantamila dollari, e la Riunione Adriatica di Sicurtà, con un capitale di sei milioni e novecentomila dollari e un profitto di un milione e duecentosettantamila dollari. Strette da forti vincoli con la Banca Commerciale (a sua volta sotto controllo vaticano), le Generali hanno un ricco portafoglio di azioni della Montecatini-Edison, la quale dal canto suo possiede un portafoglio non meno ricco di titoli delle Generali.

Similmente, la Adriatica di Sicurtà è legata al Credito Italiano (del quale il Vaticano è magna pars), intrattiene rapporti finanziari con gl’istituti di credito La Centrale e Bastogi, entrambi sotto l’influenza vaticana, e lavora in stretta connessione con l’Italcementi.

In violazione delle leggi italiane, che vietano ai membri del Parlamento di avere rapporti di affari con imprese commerciali, quattro senatori (tutti democristiani), uno dei quali fu più volte ministro, sono nel consiglio di amministrazione delle Assicurazioni Generali. Per nulla turbate da questa incompatibilità, le Generali hanno condotto tranquillamente i loro affari, traendone eccellenti profitti. Assieme alla Riunione Adriatica di Sicurtà leAssicurazioni Generali hanno, nel corso degli anni, largamente profittato di opulenti contratti di assicurazione stipulati con Società statali operanti in territori stranieri (assicurazioni contro i danni di possibili bombardamenti nucleari, contro le perdite dovute a nazionalizzazione e confische operate dai governi locali), così come hanno beneficiato di vari contratti assicurativi ottenuti con clienti stranieri grazie alla stretta cooperazione di organismi statali. In tal modo le due compagnie, mostrando di non formalizzarsi troppo per il fatto di avere alcuni esponenti del Parlamento a rappresentare i loro privati interessi, sono gradualmente diventate le due massime compagnie assicuratrici d’Italia. Ecco un elenco di altre Società di assicurazione che hanno rapporti più o meno stretti con il Vaticano: Compagnia di Roma, conosciuta anche come Riassicurazioni e Partecipazioni Assicurative(capitale novecentosessantamila dollari), Unione Italiana di Riassicurazione(novecentosessantamila dollari), Le Assicurazioni d’Italia (due milioni di dollari),Finmeter (un milione e seicentottantamila dollari), Compagnia Tirrena di Capitalizzazioni e Assicurazioni (due milioni e quattrocentomila dollari), Unione Finanziaria Italiana (seicentoquarantamila dollari), Finanziaria Tirrena(centosessantamila dollari), Lloyd Internazionale (ottocentomila dollari), Fata (“Fondo Assicurativo tra Agricoltori”; un milione e duecentomila dollari).

Le informazioni fornite in questo capitolo danno un’idea vertiginosa della posizione che gli uomini del Vaticano hanno saputo creare alla loro “ditta” nel mondo dei grandi affari.

Non è cosa da poco. Dopo anni di riflessione è stato deciso che l’accumulazione di ricchezza non è più peccaminosa e riprovevole di quanto lo sia far collezione di monete. Certo, il Vaticano continua ad perpetuum a fare la carità, ma è altrettanto certo che non la pratica più. Il Vaticano sembra non aderire alla tesi secondo cui l’arricchimento di un uomo significa l’impoverimento di un altro. E’ anche vero che, da un certo punto di vista, la corsa all’arricchimento del Vaticano è risultata particolarmente benefica per l’Italia. Ha avviato il progresso del Paese consentendogli di riprendersi dallo stato di prostrazione in cui l’aveva lasciato la guerra (voluta dal Vaticano e dai gesuiti, nota di NWO-TR); ha fornito capitali per gli investimenti, ha generato un benessere di cui ciascuno in qualche misura ha goduto. In una società libera, che ha bisogno di concentrazioni di ricchezza privata per controbilanciare il potere dello Stato, il Vaticano (che non persegue più miraggi di ingrandimenti territoriali) si è convertito alle teorie capitalistiche e ha fornito un autorevole esempio a coloro che credono nel danaro e sacrificano sull’altare dei grandi affari. I Palazzi Apostolici e Wall Street cantano all’unisono.

Grazie alla segretezza con cui sono svolte le complesse operazioni finanziarie della Chiesa, l’immagine che la gente ha del Vaticano è ancora quella di un’ente ecclesiastico. Spesso l’apprendere che la Chiesa non è altro che un grosso organismo affaristico dà fastidio, a torto, alla gente. Un giornalista americano che è stato per anni corrispondente da Roma, Barrett MacGurn, raccontava dello stupore del Segretario per il lavoro degli Stati Uniti, James Mitchell, da lui intervistato subito dopo una visita a Pio XII. “Il Papa sa tutto sull’Organizzazione Internazionale del Lavoro”, esclamava Mitchell, “ed era già informato che la recessione degli Stati Uniti è stata superata. Ma se noi stessi lo abbiamo appena saputo!”.

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